© Warner BrosPersonaggio della DC, diventato famoso come uno degli storici nemici di Batman, il Joker di Todd Phillips, interpretato magistralmente da Joaquin Phoenix, è una versione riuscitissima del male che sfida il bene al di fuori della contrapposizione tra eroe e antieroe.
Attraverso una narrazione allegorica che mette in evidenza aspetti psicologici e sociali, la storia di Arthur Fleck è la storia del male che prende corpo e forma nella trasformazione da persona a personaggio.
Joker è un film di cui conosciamo già il finale: Arthur è destinato a diventare l’antagonista di Batman, l’antieroe (come vorrebbe ogni schema di Propp che si rispetti), l’incarnazione del male.
Ciononostante non possiamo fare a meno di entrare in empatia con lui (almeno per buona parte del film). Come è possibile?
Innanzitutto perché il protagonista non ci viene presentato come il classico “cattivo”, anzi, per buona parte del film sembrerebbe essere la vittima.
La sua è una storia di grande sofferenza, familiare, sociale, relazionale. Tutto nella sua vita sembra andare per il verso sbagliato. A ben guardare non ci sono “appigli” nell’esistenza di Arthur: una madre con problemi psichici, che scoprirà essere la madre adottiva, un’infanzia di abusi rimossa e il cui trauma gli ha causato un disturbo neurologico che rende problematica l’interazione con gli altri, poiché gli provoca incontrollabili attacchi di riso in situazioni di forte stress emotivo (il che sembra uno strano scherzo del destino, considerando che il suo sogno è quello di diventare un cabarettista ma, non avendo talento, è costretto a lavorare come clown); dimenticato dalla società, frustrato nelle sue ambizioni e nel desiderio di realizzarsi come persona, Arthur oscilla tra la rassegnazione e i molti goffi tentativi di provarci ancora, ma resta irrimediabilmente invisibile ( e l’invisibilità non è per lui un superpotere).
Come si può non fare il tifo per Arthur? Come non sperare che almeno una gliene vada bene? Lo spettatore esulta quando la narrazione filmica lo illude facendogli credere che qualcosa di bello possa succedere anche a lui: il collega di lavoro che si mostra gentile, la vicina di casa che gli sorride…
E’ vera empatia quella che proviamo per questo antieroe, o si tratta più di quello che Edith Stein chiama
inganno di empatia, per cui lo spettatore giunge ad una errata valutazione sul personaggio attribuendogli ciò che non gli appartiene(e che invece magari appartiene a se stesso)?
In altre parole, ci sentiamo così vicini a Joker perché il modo in cui viviamo la sua storia ci fa presupporre che sia davvero una vittima indifesa e non uno spietato criminale?
Fermo restando che empatizzare con Arthur/Joker non significa “diventare” lui, la più grande fonte di malinteso sull’empatia viene proprio da quel diffusissimo quanto equivoco “mettersi nei panni dell’altro” che con un po’ di superficialità ne è diventato la definizione. Vestire i panni dell’altro non significa trasformarsi nell’ “Altro”, ma piuttosto entrare nella dimensione del “come se”, abitare un abito non nostro come se fosse nostro, ma consapevoli che non lo è.
A livello di visione collettiva, che il cinema incoraggia, ogni spettatore in sala sarà con molta probabilità portato a provare solidarietà e comprensione per Arthur, scindendo nella narrazione le premesse dalle conseguenze, con un atto di dimenticanza dell’epilogo che pure conosce molto bene. Come se la sofferenza non possa riguardare il male, ma debba di diritto appartenere al bene.
Se l’empatia è la premessa, che passa attraverso la comprensione nutrita di attenzione, di una diversificata serie di azioni-reazioni che destiniamo all’Altro, ecco che con la trasformazione di Arthur Fleck in Joker anche lo spettatore cambia: con un nuovo e ulteriore atto di empatia aggiusta il tiro e arriva a “rendersi conto”, per usare le parole della Stein, che ciò che ora vive e sperimenta è una
empatia negativa che lo porta a prendere le distanze da quell’Altro cui si è sentito così vicino fino ad un attimo prima. Forse perché, smascherato l’inganno, la maschera è diventata il vero volto di Joker.

La scena, divenuta ormai celebre, del ballo sulla scalinata del Bronx,  rappresenta l’ingresso- si può dire trionfale - di Joker nel mondo. Quella scalinata è il suo palcoscenico, quello che Arthur non è mai riuscito a conquistare. Arthur Fleck si congeda da se stesso indossando una maschera per mostrare la sua nuova identità più che per nascondersi.
Il momento in cui sceglie definitivamente il male è anche quello in cui sembra finalmente riscattarsi agli occhi di quel mondo che gli ha negato tutto. Paradossalmente è in questi panni che sembra trovare il vero lato comico della vita.
Complici l’interpretazione di Joaquin Phoenix, le musiche e la fotografia, lo spettatore, anche se solo per un breve attimo, resta ammaliato da questo antieroe: il male diventa “eroico”, un modello di successo.

Eletto dal popolo in rivolta eroe degli ultimi, degli invisibili, degli emarginati, è allo stesso tempo uno spietato criminale.
Tra bene e male dove si colloca quindi questo complesso personaggio?
Joker è il prodotto di quella che Hannah Arendt ha definito
la banalità del male, che incontra e si scontra con la fragilità del bene, teorizzata da Martha Nussbaum.

Per la Arendt il male è una sfida al pensiero perché, a differenza di questo che va a fondo, alla radice delle cose, il male non è mai radicale. Per questo è banale, perché quando il pensiero cerca le sue ragioni, non trova nulla.
Compiere il male allora significa agire senza “parlarsi dentro”, non chiedersi “Cosa sto facendo?”.
La narrazione filmica mostra il percorso che porta da Arthur a Joker come una serie di eventi in un crescendo di situazioni al limite della sopportazione umana, che culminano in azioni brutali nella loro immediatezza (ciò che con leggerezza molti criminologi amano definire “raptus”).
Col senno di poi, la trasformazione di Arthur appare scontata per lo spettatore, ed è anche in questo che sta la banalità del male che Joker incarna. Così come banale, perché non radicata, è la rivolta dei cittadini di Gotham, ispirata da Joker, una rivolta nata “di pancia”.
Arthur non si è chiesto: “Cosa sto facendo?”. Ha piuttosto chiesto alla vita: “Cosa mi stai facendo?”, ”Cosa stai facendo di me?”. Non ha potuto “parlarsi dentro” perché il suo “dentro” gli è sconosciuto, è un luogo fatto di rimozioni che gli rimane estraneo.
Definire Joker “il cattivo”, il criminale che è divenuto tale per via del suo passato, sarebbe dunque riduttivo e non renderebbe giustizia ad un personaggio affascinante pur nella sua oscurità. Tanto più che il male non può essere pensato al di fuori del suo problematico intreccio col bene.

Perché Arthur Fleck non avrebbe potuto scegliere il bene?
Egli ignora cosa vogliano dire l’amore, la cura, il rispetto o  la fiducia, non avendone mai potuto fare esperienza. Eppure queste cose le ha desiderate, tanto da costruirle nella sua mente (come quando immagina di avere una relazione con la sua vicina di casa, o di essere invitato sul palco nella trasmissione televisiva del suo idolo che, tra gli applausi del pubblico, dichiara di considerarlo come un figlio e di ammirarlo molto). Così, quando la realtà ha messo sotto scacco i suoi desideri, è uscito di scena lasciando il posto a Joker, che a quella stessa maschera che è stata la sua fonte di frustrazione dà un nuovo significato: essere riconoscibile e riconosciuto (anche questo fa di lui l’antieroe, laddove i supereroi mettono la maschera proprio per tenere nascosta la loro identità). 

Favole, fumetti e buona parte della cinematografia, con i loro lieto fine ci hanno abituati all’idea che il bene alla fine trionfa sul male, dimostrandosi così più forte.  
Ma il male può apparire addirittura eroico quando diventa l’epilogo di una vita di sconfitte esistenziali e sicuramente agli occhi di chi lo pratica (ed ecco che ritorna la sua banalità), mentre il bene è e resta fragile, come ci ricorda la Nussbaum. È fragile perché è l’essere umano ad essere fragile, continuamente in balia delle sue emozioni ed esposto all’imprevedibilità del caso. E che dire del fatto che scegliere il bene non sempre ci ripaga? Persino i supereroi, nonostante i loro superpoteri, non sono immuni da sofferenza e tormento. Proprio perché fragile però, il bene ci spinge, ci esorta, ci mette alla prova continuamente, dandoci la possibilità di migliorarci, di non restare immobili sulla soglia dei nostri limiti. Il bene ha bisogno che ce ne prendiamo cura, e così facendo possiamo sbocciare come persone ( è questo il significato dell’
Eudemonia per la Nussbaum).

Nel film di Todd Phillips bene e male sono in guerra, ma nella stessa persona: messo alla prova da una sorte avversa, alla fine ad Arthur il bene è sfuggito di mano rompendosi in mille pezzi come un cristallo, e da quei mille pezzi è nato Joker. In Arthur Fleck ha vinto il male perché il male, nella sua banalità, non può avere a non avrà mai la fragilità del bene.